Friday 4 October 2013

La carrozzina


Una donna mi chiese se potevo badare un momento al suo bambino: voleva entrare nel negozio davanti al quale mi trovavo per puro caso, accessibile solo tramite una rampa di due metri.
L’aiuto a portare su la carrozzina, le proposi.
Troppo traffico, rispose, obiettando con una mano. Sarebbe stato più facile se l’avessi aspettata. Mentre stava già salendo, aggiunse che ci avrebbe messo solo cinque minuti.  Forse nessuno l’avrebbe aiutata a riportare in strada la carrozzina e così mi sembrò giusto che le facessi da guardia.
Il bambino era sommerso da un voluminoso piumino. Solo guardando in fondo, dentro la carrozzina, riuscii a scoprire una testa incappucciata, girata su un lato. Era tranquillo, apparentemente stava dormendo.
Non conoscevo la mamma del bambino, anche se dovevamo vivere nello stesso quartiere perché l’avevo vista spesso per strada. Ma non avevamo mai scambiato due parole. Sembrava che questo conoscersi di vista le bastasse per aver fiducia in me a tal punto da affidarmi suo figlio.
Iniziava a imbrunire e lungo la strada in quel momento si accesero i lampioni. Era una serata tiepida, un caldo insolito si era infiltrato nel bel mezzo dell’inverno. I cappotti erano troppo pesanti, le sciarpe troppo fitte e il sudore impregnava le canottiere e le camicie, che si appiccicavano alla pelle. Con questo caldo melmoso anche il piccolo doveva soffrire sotto un piumino così pesante. Non mi azzardai a controllare.
Aspettai per un quarto d’ora e finalmente la vidi uscire dal negozio con un sacchetto pieno di acquisti. Quando mi raggiunse feci per andarmene, ma appena mi voltai disse che avrebbe avuto ancora bisogno del mio aiuto. “Non durerà molto”, mi assicurò incamminandosi, lasciandomi la carrozzina. La seguii, spingendo il bambino, pensando al motivo che la induceva a camminare in modo così rapido. La chiamai più volte mentre cercavo di tenere il suo passo; tuttavia continuava a mantenere lo slancio verso una meta che non conoscevo ancora.
Si fermò soltanto quando arrivammo davanti al portone di casa. L’ascensore era fuori servizio, mi rivelò, avrebbe dovuto portare tutto al secondo piano. Era certa che l’avrei aiutata, d’altronde da sola sarebbe stato davvero impossibile, non ce l’avrebbe mai fatta. Presi la carrozzina da un lato, lei la afferrò da quello opposto e la sollevammo, portandola su per le scale. Da una piccola finestra sul pianerottolo del primo piano vidi che aveva appena iniziato a piovere. Da lontano, appena udibile, un tuono si liberò dal cielo gravido.
“Vuole entrare a prendere un caffè?”, mi chiese dopo aver aperto la porta di casa. Spinse dentro la carrozzina e mi tirò per un braccio. Chiuse subito la porta con un giro di chiave. Sbottonò il cappotto e lo appese al portabiti insieme alla sciarpa. Si girò verso di me con un braccio teso, aspettando che mi levassi la giacca e gliela porgessi. Quando gliela diedi, si accorse che la fodera interna era tutta umida dal sudore. Infilò una mano e rigirò le maniche in modo che potessero asciugare. Poi l’appese accanto alla sua.Tè o caffè? Mi domandò. Non lo so, risposi. Andò in cucina ma tornò all’istante per chiedermi di seguirla. Mi sedetti al tavolo. La osservai tirar fuori un pentolino da un armadio, riempirlo di acqua e sistemarlo sulla stufa. L’acuto rumore dell’accendigas erano due sfere d’acciaio che si scontravano. La fiamma si accese immediatamente. Tirò fuori una bustina da una scatola e si sedette accanto a me. Subito si alzò, ricordandosi di qualcosa, e uscì dalla cucina. Sentii un improvviso barbugliare, basso, profondo, continuo. Capii che erano i gargarismi di un rubinetto, l’acqua che scendeva in una vasca.
Era tornata in cucina. Sei tutto sudato. Devi farti un bagno caldo.
Sopra alla pentola si alzava del vapore. Fuori non aveva più tuonato. Forse stava ancora piovendo. Spense il gas e infilò la bustina del tè nel pentolino. Dopo un minuto di silenzio ritirò la bustina e la abbandonò sul lavandino. Ecco, disse, porgendomi una tazza con il tè bollente. Strano, ma non c’eravamo nemmeno presentati. Il tè fumava, adesso avevo fretta di berlo. Presi un sorso e mi bruciai la lingua e il palato. Cercai di far finta di niente, anche se avevo le lacrime agli occhi per il dolore. Povero, ti sei bruciato, mi disse, venendomi accanto per farmi una carezza sui capelli. Non dissi nulla. Non c’era nulla da dire. In quell’istante le lacrime mi scesero giù dal volto, il pianto diventò così forte che non realizzai subito che mi aveva stretto a sé, mi stringeva contro il suo ventre, accarezzandomi ora il volto. Piansi singhiozzando dentro il suo vestito, bagnando completamente il mio viso, inumidendo il suo maglione. Incominciò a dondolarmi, tenendomi fra le sue braccia finché non mi tranquillizzai.
Dopo un po’ si alzò con cautela, tenendomi ancora stretto a sé, trascinandomi nel bagno. Iniziò a svestirmi, chiuse l’acqua e non appena mi ebbe tolto i calzini e lo slip m’infilò nella vasca. L’acqua era calda e ricoperta di schiuma. Feci un profondo respiro. Avevo ancora il viso bagnato, ma ora era più l’acqua della vasca a inumidire le mie guance. I singhiozzi diminuirono, finché non cessarono del tutto, mentre mi massaggiava e insaponava la testa e i capelli. Passò lentamente una spugna lungo la mia schiena, sulle mie braccia e le mie gambe. Le sorrisi.
Mi fasciò dentro a un enorme asciugamano e lo premette dolcemente contro la mia pelle. Da un armadietto estrasse una bottiglietta e mi ricoprì di una polvere fine bianca e profumata. Si sedette e mi prese in braccio. Sentii come si scostò leggermente da me, sollevò il suo maglione e la camicetta per slacciarsi il reggiseno. Accostò il seno libero accanto alle mie labbra, tenendo con due dita il capezzolo affinché lo afferrassi. Il caldo latte aveva il sapore della sua pelle, succhiavo e sentivo riempirmi la bocca di un calmante che mi penetrava a fondo avvolgendo la mia mente.
Poco dopo si riallacciò il reggiseno e si rinfilò la camicetta e il maglione, mentre continuavo a osservarla. Mi appoggiò sull’asciugamano disteso in terra e uscì dal bagno. Tornò subito. Aveva portato dei vestiti puliti e asciutti. Mi rivestì, prima di prendermi in braccio e riportarmi nell’ingresso, dove attendeva la carrozzina. Ecco, disse, ora va già meglio.
Estrasse dalla carrozzina la bambola che si trovava sotto le coperte, se ne liberò con un lancio e mi sistemò al suo posto sotto al piumino.

(Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta in fermomag.it, Novembre 2012. (c) Marco Grosse).
 

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