Una donna mi chiese se potevo badare un momento al suo bambino: voleva entrare nel negozio davanti al quale mi trovavo per puro caso, accessibile solo tramite una rampa di due metri.
L’aiuto a portare su la carrozzina, le proposi.
Troppo
traffico, rispose, obiettando con una mano. Sarebbe stato più facile se
l’avessi aspettata. Mentre stava già salendo, aggiunse che ci avrebbe
messo solo cinque minuti. Forse nessuno l’avrebbe aiutata a riportare
in strada la carrozzina e così mi sembrò giusto che le facessi da
guardia.
Il bambino
era sommerso da un voluminoso piumino. Solo guardando in fondo, dentro
la carrozzina, riuscii a scoprire una testa incappucciata, girata su un
lato. Era tranquillo, apparentemente stava dormendo.
Non
conoscevo la mamma del bambino, anche se dovevamo vivere nello stesso
quartiere perché l’avevo vista spesso per strada. Ma non avevamo mai
scambiato due parole. Sembrava che questo conoscersi di vista le
bastasse per aver fiducia in me a tal punto da affidarmi suo figlio.
Iniziava a
imbrunire e lungo la strada in quel momento si accesero i lampioni. Era
una serata tiepida, un caldo insolito si era infiltrato nel bel mezzo
dell’inverno. I cappotti erano troppo pesanti, le sciarpe troppo fitte e
il sudore impregnava le canottiere e le camicie, che si appiccicavano
alla pelle. Con questo caldo melmoso anche il piccolo doveva soffrire
sotto un piumino così pesante. Non mi azzardai a controllare.
Aspettai
per un quarto d’ora e finalmente la vidi uscire dal negozio con un
sacchetto pieno di acquisti. Quando mi raggiunse feci per andarmene, ma
appena mi voltai disse che avrebbe avuto ancora bisogno del mio aiuto.
“Non durerà molto”, mi assicurò incamminandosi, lasciandomi la
carrozzina. La seguii, spingendo il bambino, pensando al motivo che la
induceva a camminare in modo così rapido. La chiamai più volte mentre
cercavo di tenere il suo passo; tuttavia continuava a mantenere lo
slancio verso una meta che non conoscevo ancora.
Si fermò
soltanto quando arrivammo davanti al portone di casa. L’ascensore era
fuori servizio, mi rivelò, avrebbe dovuto portare tutto al secondo
piano. Era certa che l’avrei aiutata, d’altronde da sola sarebbe stato
davvero impossibile, non ce l’avrebbe mai fatta. Presi la carrozzina da
un lato, lei la afferrò da quello opposto e la sollevammo, portandola su
per le scale. Da una piccola finestra sul pianerottolo del primo piano
vidi che aveva appena iniziato a piovere. Da lontano, appena udibile, un
tuono si liberò dal cielo gravido.
“Vuole
entrare a prendere un caffè?”, mi chiese dopo aver aperto la porta di
casa. Spinse dentro la carrozzina e mi tirò per un braccio. Chiuse
subito la porta con un giro di chiave. Sbottonò il cappotto e lo appese
al portabiti insieme alla sciarpa. Si girò verso di me con un braccio
teso, aspettando che mi levassi la giacca e gliela porgessi. Quando
gliela diedi, si accorse che la fodera interna era tutta umida dal
sudore. Infilò una mano e rigirò le maniche in modo che potessero
asciugare. Poi l’appese accanto alla sua.Tè o
caffè? Mi domandò. Non lo so, risposi. Andò in cucina ma tornò
all’istante per chiedermi di seguirla. Mi sedetti al tavolo. La osservai
tirar fuori un pentolino da un armadio, riempirlo di acqua e sistemarlo
sulla stufa. L’acuto rumore dell’accendigas erano due sfere d’acciaio
che si scontravano. La fiamma si accese immediatamente. Tirò fuori una
bustina da una scatola e si sedette accanto a me. Subito si alzò,
ricordandosi di qualcosa, e uscì dalla cucina. Sentii un improvviso
barbugliare, basso, profondo, continuo. Capii che erano i gargarismi di
un rubinetto, l’acqua che scendeva in una vasca.
Era tornata in cucina. Sei tutto sudato. Devi farti un bagno caldo.
Sopra alla
pentola si alzava del vapore. Fuori non aveva più tuonato. Forse stava
ancora piovendo. Spense il gas e infilò la bustina del tè nel pentolino.
Dopo un minuto di silenzio ritirò la bustina e la abbandonò sul
lavandino. Ecco, disse, porgendomi una tazza con il tè bollente. Strano,
ma non c’eravamo nemmeno presentati. Il tè fumava, adesso avevo fretta
di berlo. Presi un sorso e mi bruciai la lingua e il palato. Cercai di
far finta di niente, anche se avevo le lacrime agli occhi per il dolore.
Povero, ti sei bruciato, mi disse, venendomi accanto per farmi una
carezza sui capelli. Non dissi nulla. Non c’era nulla da dire. In
quell’istante le lacrime mi scesero giù dal volto, il pianto diventò
così forte che non realizzai subito che mi aveva stretto a sé, mi
stringeva contro il suo ventre, accarezzandomi ora il volto. Piansi
singhiozzando dentro il suo vestito, bagnando completamente il mio viso,
inumidendo il suo maglione. Incominciò a dondolarmi, tenendomi fra le
sue braccia finché non mi tranquillizzai.
Dopo un
po’ si alzò con cautela, tenendomi ancora stretto a sé, trascinandomi
nel bagno. Iniziò a svestirmi, chiuse l’acqua e non appena mi ebbe tolto
i calzini e lo slip m’infilò nella vasca. L’acqua era calda e ricoperta
di schiuma. Feci un profondo respiro. Avevo ancora il viso bagnato, ma
ora era più l’acqua della vasca a inumidire le mie guance. I singhiozzi
diminuirono, finché non cessarono del tutto, mentre mi massaggiava e
insaponava la testa e i capelli. Passò lentamente una spugna lungo la
mia schiena, sulle mie braccia e le mie gambe. Le sorrisi.
Mi fasciò
dentro a un enorme asciugamano e lo premette dolcemente contro la mia
pelle. Da un armadietto estrasse una bottiglietta e mi ricoprì di una
polvere fine bianca e profumata. Si sedette e mi prese in braccio.
Sentii come si scostò leggermente da me, sollevò il suo maglione e la
camicetta per slacciarsi il reggiseno. Accostò il seno libero accanto
alle mie labbra, tenendo con due dita il capezzolo affinché lo
afferrassi. Il caldo latte aveva il sapore della sua pelle, succhiavo e
sentivo riempirmi la bocca di un calmante che mi penetrava a fondo
avvolgendo la mia mente.
Poco dopo
si riallacciò il reggiseno e si rinfilò la camicetta e il maglione,
mentre continuavo a osservarla. Mi appoggiò sull’asciugamano disteso in
terra e uscì dal bagno. Tornò subito. Aveva portato dei vestiti puliti e
asciutti. Mi rivestì, prima di prendermi in braccio e riportarmi
nell’ingresso, dove attendeva la carrozzina. Ecco, disse, ora va già
meglio.
Estrasse
dalla carrozzina la bambola che si trovava sotto le coperte, se ne
liberò con un lancio e mi sistemò al suo posto sotto al piumino.
(Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta in fermomag.it, Novembre 2012. (c) Marco Grosse).
No comments:
Post a Comment